Eh già, perché ormai ci sono così tanti Die Hard che un altro paio e dovremo parlare di Epopea.
Un'epopea iniziata alla grande, a fine anni 80, con il primo Die Hard, da noi "Trappola di cristallo", che vabbè, se proprio devono cambiargli il titolo s'è visto anche molto di peggio. Un gran bel film d'azione, né più né meno. Storia semplice e plausibile: uno sfortunato Bruce Willis con i capelli si trova bloccato in un grattacielo assieme a rapinatori di turno ed ostaggi, tra cui la moglie. Dovrà affrontarli da solo e senza scarpe.
Chiunque si occupasse delle trasposizioni dei titoli aveva evidentemente abusato di stupefacenti quando, un paio d'anni dopo, arrivò nelle sale il seguito, "58 minuti per morire". D'altra parte "Trappola di cristallo 2" non c'entrava una pera e qualcosa dovevan pur inventarsi. Trama un minimo più articolata rispetto al primo, con addirittura dei piccoli colpi di scena qua e là: dei terroristi prendono il controllo di un aeroporto, bloccando le comunicazioni e tenendo in ostaggio gli aerei in attesa di atterrare, allo scopo di liberare un criminale internazionale in arrivo all'aeroporto stesso. Stavolta Willis ha più scarpe e meno capelli, che però tengono duro, dai che durate almeno un altro film. Non è più nemmeno solo a dover sventare la minaccia del caso, ad aiutarlo ci sono i poliziotti dell'aeroporto. Se hai mai dovuto fare, magari a scuola, qualche progetto o lavoro di gruppo, allora conosci il losco figuro che è nella tua squadra, dovrebbe lavorare assieme a te ed aiutarti, ma in realtà non fa una 'ceppa di utile ed anzi ti rompe anche il cazzo mentre cerchi di concludere qualcosa: ecco il tipo d'alleati che si ritrova il povero Bruce. Oh, quasi dimenticavo, la moglie a questo giro è su uno degli aerei in volo che stanno finendo il carburante, che in quanto a sfiga quella donna è messa peggio della signora in giallo, almeno lei metteva in pericolo gli altri, mica sé stessa. Anche questo un film decente, se si è disposti a chiudere un occhio sulle solite cose come gli sgherri del cattivo che con una pistola mitragliatrice non sono in grado di colpire niente a più di 3 metri (o per lo meno non Bruce Willis). Ma auguri a trovare un film d'azione che ti piaccia, se non sopporti cose simili.
Per il terzo film anche ad holliwood decidono di cambiare nome, forse pensando sarebbe stato l'ultimo (stolti loro) o perché i nostri traduttori avevano prestato loro la droga: "Die Hard with a vengeance". Da noi, visto che gli americani in cambio della droga ci avevan passato un dizionario inglese-italiano, capiscono finalmente più o meno cosa vuol dire Die Hard e lo traducono semplicemente "Duri a morire", che ci sta anche. Stavolta la moglie è miracolosamente fuori dalle palle e Willis ha una spalla affidabile, il buon Samuel L. Jackson, che per fortuna non è arrivato nel film precedente altrimenti come minimo stava su uno degli aerei a combattere i serpenti. Di nuovo da sventare il piano del cattivo di turno, ovvero il fratello del cattivo del primo film, infatti bravi attori e bei personaggi per entrambi. E poteva finire tutto qui. Invece no.
"Live free or die hard", tradotto, dizionario alla mano ma ancora poca abilità nell'usarlo, "Vivere o morire". I capelli, capito che era meglio chiudere in bellezza e non apparire in questo seguito, hanno ormai abbandonato Bruce Willis. Il buon Samuel Jackson è stato rimpiazzato da un ragazzo impedito buttato lì per far battute e rompere le palle. Il poliziotto McClane, che ormai sembra mio nonno e nemmeno in una delle sue giornate migliori, si trova a dover lanciare auto contro gli elicotteri ed a combattere jet. Un jet. Lui sta guidando un camion con 50.000 chilometri che non ha mai fatto una revisione ed arriva un jet da combattimento a decollo verticale esportatore di democrazia a farlo secco. E lui lo abbatte. E il realismo aveva detto che andava un attimo a comprare le sigarette, nessuno lo ha ancora rivisto. Capisco che gli scagnozzi del cattivo non sarebbero nemmeno in grado di colpire il terreno se non fosse per la forza di gravità, ma qui si sta parlando di un pilota addestrato, alla guida di un jet. Con i missili. Bruce Willis non solo si salva, ma lo abbatte. Vabbè. E nel frattempo la figlia è stata presa in ostaggio, che a 'sto punto è genetico mi sa.
Ormai completamente disintossicati e profondi conoscitori del dizionario, quando esce "A good day to die hard" i nostri sono pronti: arriva così da noi "Un buon giorno per morire", nell'ufficio traduzioni si festeggia e versa spumante. Nelle sale, si versano lacrime. Oltre i capelli Willis ha perso anche la voglia, e si vede. Non è stato pagato e motivato abbastanza. Dai, lo sapevano che per fargli far le cose per bene bisogna rapirgli moglie e figli. In questa ultima (si spera viviamente) pellicola il figlio è nei guai in russia e paparino va a vedere cosa è successo, poi c'è un inseguimento di mezz'ora in cui McClane capotta un autoblindo militare utilizzando una Twingo, poi ci sono colpi di scena così prevedibili che ancora un po' te li scrivevano sugli striscioni all'ingresso del cinema, poi ci sono sparatorie ed esplosioni ed altri elicotteri abbattuti e poi il film finisce e mentre scorrono i titoli di coda e tu esci dalla sala contento, non per il bel film ma perché stai uscendo, ti trovi il realismo che ritorna, sigaretta in bocca, chiedendo se si è perso qualcosa.
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